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Girolamo Bargagli (1537-1586)

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Enciclopedia Treccani (di Nino Borsellino - Dizionario Biografico degli Italiani)

Nacque a Siena nel 1537 e fu il maggiore dei tre figli di Giulio e Ortensia Ugurgieri. Ebbe una educazione insieme giuridica e letteraria e, giovane, fu ascritto col nome di Materiale all'Accademia degli Intronati, alla quale è legata la sua non folta attività di poeta, commediografo e trattatista. Si dedicò soprattutto alle leggi. Insegnò, pare per vari anni, nello Studio di Siena, dove figura nel ruolo dei lettori per il 1563; poi, nel 1565, fu nominato uditore di Rota, o forse soltanto giudice, a Firenze, e qui stette probabilmente fino al 1568-69. Nel 1574 fu chiamato come uditore di Rota civile a Genova, dove fu anche sostituto capitano di giustizia. Rientrato non si sa ìn quale anno in patria, attese alla professione d'avvocato.

Nel 1586 s'accingeva a tornare a Genova per assumere l'incarico di uditore di Rota criminale, quando venne a morte a Siena non il 15 aprile, come afferma il Marenduzzo, ma nell'ottobre dello stesso anno, come ha dimostrato il Sanesi.

Intellettuale dì una generazione che aveva assistito, insierne con la caduta della patria nelle mani di Cosimo de' Medici, al crollo delle antiche libertà cittadine, il Bargagli espresse, come altri suoi consoci dell'Accademia degli Intronati, una stanca e diffusa aspirazione alla pace che coincideva, dopo il trattato di Cateau-Cambrésis, con la rassegnata soggezione della cultura senese alla nuova grande sistemazione territoriale dello Stato mediceo. Nei suoi sonetti giovanili, conservati manoscritti nella biblioteca comunale di Siena, resta la testimonianza, seppure poeticamente molto debole, di questo stato d'animo: sia che egli invochi Venere perché induca Marte a far cessare le guerre in Toscana e a far godere "l'amata pace", sia che si auguri che sotto la guida di Alessandro Piccolomini, eletto Arcintronato, lo stuolo degli Intronati possa vincere "la gran forza del tempo e della morte che trionfando va di tutto il mondo". Un sonetto, probabilmente del 1559, inneggia, per "l'unione dello stato di Montalcino" (ultimo baluardo della resistenza senese), alla " pace universale fatta fra i due re" e termina con le lodi del duca Cosimo (del quale inoltre il Bargagli esaltò in tono esageratamente cortigiano l'entrata in Siena); ma un altro, che lamenta la prigionia di un amico col quale il poeta vorrebbe dividere la libertà, sembra riflettere come in un'eco dolorosa gli avvenimenti che portarono alla tirannia medicea.

Per il resto la sua produzione poetica (comprendente una cinquantina di sonetti e due madrigali) s'aggira nell'orbita di un esercizio in stile bembesco-petrarchesco di contenuto accademico e galante con predilezione per gli artifici della parola-rima o delle poesie dei "contrari". Qualche occasionale prelievo di dati cronachistici ("Sopra una donna che per disperazione s'appiccò da se stessa, ma si ruppe il laccio") e familiari ( "Sopra la tardanza del partorire della sua donna") sembra, sia pure esiguamente, convalidare anche in area senese un generale processo di appiattimento borghese della tradizionale tematica platonico-petrarchesca della lirica cinquecentesca.

Di maggiore rilievo le due altre opere del Bargagli, la commedia La Pellegrina e il Dialogo de' giuochi.

Scritta nel 1564 su richiesta del cardinale Ferdinando de' Medici, dopo che Alessandro Piccolomini, interpellato per primo, aveva trasmesso l'incarico della composizione al Bargagli (che comunque si servì per i dialoghi dell'aiuto dello stesso Piccolomini e di Fausto Socini, la cui collaborazione forse non èestranea al vivace anticlericalismo del testo, censurato nella stampa), La Pellegrina fu edita e messa in scena solo dopo la morte dell'autore, nel 1589, dal fratello Scipione che la riesumò per le nozze di Ferdinando I, divenuto granduca, con Cristina di Lorena, e rappresentata con intermezzi da attori senesi.

La commedia risponde a quella voga del patetico e del romanzesco che ormai predominava nel teatro comico italiano e aveva trovato la sua prima applicazione in ambiente senese soprattutto nell'Amor costante di Piccolomini. Ma di questo gusto La Pellegrina è l'espressione più conseguente e forse più viva. L'autore qui lascia ancora posto a quel "piacevole"e a quel "ridicolo", elementi indispensabili di ogni testo comico, che si affermano nei dialoghi dei servi o nel gioco degli equivoci, ma depaupera la vicenda di ogni carica beffarda o puramente edonistica, trasforma insomma la commedia in dramma serio o sentimentale. Un rilievo particolare ha in questo testo la protagonista femminile, Drusilla, che audace, come lo sarà poi l'Erminia tassesca, si reca da Lione a Pisa travestita da pellegrina per rivedere Lucrezio, dal quale crede di non essere più amata, per richiamarlo alle leggi della fedeltà amorosa e dell'onore. Pensosa e elegiaca nei suoi discorsi, che non si sottraggono alla compiacenza presecentesca della concettosità e delle contrapposizioni, Drusilla riflette la sua sentimentalità sugli altri personaggi, servi compresi, che qui conciliano la loro tradizionale furbizia con la dignitosa coscienza della loro condizione, mitigando quindi i loro tratti più tipicamente buffoneschi.

Proprio per questa sua aderenza al gusto tardo-rinascimentale della commedia "larmoyante", affermatosi nei drammi di S. Oddi e R. Borghini, La Pellegrina godé al suo tempo di una notevole fortuna. Dopo la prima edizione senese ebbe varie ristampe fino alla sua inclusione nel volume delle Commedie degli Intronati del 1611; fu lodata da B. Guarini, come risulta da una lettera di Antonio Riccoboni (che scrisse un argomento della Pellegrina in latino) a Belisario Bulgarini, e imitata da J. Rotrou nella sua Pélerine amoureuse.

Una discreta fortuna ebbe anche l'altra opera del B., il Dialogo de' giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare, edito a Siena nel 1572 e più volte ristampato, ma scritto, come avverte lo stampatore Luca Bonetti, "già più anni" e pubblicato senza la revisione dell'autore, perché questi datosi "tutto all'avvocazione e al foro e non stimando più quest'opera per sua, non ha potuto né voluto porvi più il pensiero, non che la mano". Il dialogo è quindi l'ultimo documento degli interessi giovanili del Bargagli, ed egli infatti lo compose in segno di riconoscenza per l'Accademia degli Intronati nell'allontanarsi, come egli stesso dice nel proemio dell'opera, "da, suoi piacevoli studi".

Nella dedica a Isabella de' Medici Orsini, duchessa di Bracciano, l'autore esprime il suo rammarico per la decadenza di certe belle usanze accademiche ("poiché e per li travagli delle guerre e per la declinazione della virtù e del valore antico hanno cominciato a tralignar le spiritose vegghie da quel di prima cll'io vo dubitando che per l'avvenire non siano i nostri concittadini più tosto per contemplarle depinte in carta, che vederle più nella bella e vera effigie loro"). E in realtà un tono di sincero rimpianto circola nelle due parti dell'opera e anima talora poeticamente la disputa tra i vari interlocutori (alcuni giovani Intronati riuniti intorno a Marcantonio Piccolomini, detto il Sodo, che rappresenta la vecchia generazione dei letterati senesi). La materia, futile nella sostanza, è tuttavia ricca di allusioni a una consuetudine letterario-mondana che tendeva, come nel Cortegiano del Castiglione e negli Asolani del Benibo, ad affermare l'ideale di una civile conversazione tra dame e cavalieri fondata su un equilibrato contemperamento di esigenze artistiche e spirituali. Lo schema platonico (evidente, oltre che nella struttura dialogica, nella finzione di riunione conviviale data all'incontro e nel compito socratico di suscitatore di obiezioni assegnato al Sodo) serve, benché artificiosamente, a passare dalla discussione alla definizione dei concetti. Il gioco è definito "festevole azione d'una lieta e amorosa brigata, dove sopra una piacevole e ingegnosa proposta fatta da uno come autore e guida di tale azione, tutti gli altri facciano o dicano alcuna cosa l'un dall'altro diversamente, e questo a fine di diletto e di intertenimento". Si tratta in sostanza del gioco di società, e come forma d'intrattenimento autonomo la sua priorità èrivendicata al cenacolo senese dove sorse nelle veglie di camevale, benché precedenti e parentele siano ammessi e riconosciuti nelle testimonianze di una varia letteratura cinquecentesca (dal Castiglione al Bembo, al Mauro, all'Ariosto e ai libri di cavalleria). Alla fondamentale distinzione dei giochi (di spirito, d'ingegno, di scherzo e di piacevolezza) segue il loro fitto catalogo accompagnato da una minuta descrizione, ma condizionato da una specie di "indice de' giuochi proibiti", in cui sono riprovati quelli di scoperta "sucidezza"e soprattutto quei giochi con figure di frati e di monache dai quali è inevitabile che "un certo dispregio de' religiosi non nasca".

Le preoccupazioni controriformistiche si riaffacciano anche nella seconda parte del dialogo, dove la materia diventa più varia: l'elencazione dei giochi cede il posto all'aneddotica intorno a coloro che si recano alle veglie; si tenta di determinare, sul modello del Cortegiano, un ideale di perfetto accademico; ci si sofferma su quella specie di gioco di aristocratici enigmi che è l'invenzione delle imprese; si analizza infine il novellare come genere d'intrattenimento. Proprio l'esame nella produzione narrativa, che ha per il Bargagli i suoi massimi esempi nel Decameron e nelle parti novellistiche dell'Orlando furioso, mette in luce, insieme con le cautele moralistiche dello scrittore (bisogna ripudiare quelle novelle che hanno in sé malo esempio di religione, come fu quella di Ser Ciappelletto e di Masetto di Lamporecchio"), i suoi criteri di giudizio precettistici e normativi e le sue predilezioni per i racconti romanzeschi e patetici che " grande onestà e gran sofferenza di donna contengono, ovvero di colei che dopo gran persecuzione casta e innocente si discopre". Appaiono così meglio precisati i tratti tipici di questo scrittore certamente minore, ma coerentemente legato a quegli orientamenti di gusto e di cultura tardo-rinascimentali che egli aveva già espressi nella Pellegrina e che in ambiente senese si manifestavano anche nell'opera di altri Intronati, primi fra tutti il fratello Scipione e Belisario Bulgarini.

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